Lo fa in veste di volontario per l'ong Terre des Hommes che nel campo offre assistenza psicologica e medica. Gianluigi Sala, di Monza, è un informatico lavora come libero professionista. Ma è soprattutto un insegnante di judo. In questi giorni di festa, lasciati a casa i genitori e la fidanzata ("mi dispiace ma capiscono"), Gianluigi si trova al campo di Al Hol che ospita rifugiati palestinesi giunti dall'Iraq. Il volontario 'natalizio' è partito da circa due settimane; la sua missione, insegnare judo ai bambini del villaggio, durerà circa un mese.
"Cercare di praticare lo judo in un campo profughi - dice l'uomo - è una sfida verso chi vive un disagio. Un'idea che non mi faceva dormire prima di partire". "Ai miei corsi - racconta il volontario - partecipano circa 40 fra bambini e ragazzi, divisi per gruppi maschi e femmine, rispettando così la loro cultura. Mi colpisce il loro entusiasmo. Hanno tanta voglia di divertirsi, di trovare un modo alternativo per far passare la giornata che di solito è monotona. Ho trovato persone molto educate, nessun tipo di aggressività, nessuna particolare differenza con i bambini che conosco in Italia". Ma perché lo judo in un campo profughi? "Quest'arte marziale - spiega il maestro - permette la gestione ed il controllo dell' aggressività. Durante il combattimento, il corpo del compagno non viene mai abbandonato, anche quando cade. Nelle situazioni di disagio, come può essere un conflitto, lo judo ha un obiettivo motorio ma anche di elaborazione delle forme di aggressività, di rabbie non verbalizzate. E' importante per far capire e sentire che la violenza non paga. Nello judo si dice: 'miglior utilizzo dell'energia".
E' la monotonia del campo che colpisce Gianluigi: "é l'attesa in cui sono calati del tutto i profughi. Le famiglie aspettano anche anni prima di avere l'assegnazione ad un paese che li ospiti, che dia loro la possibilità di una nuova vita.
Una speranza che è comune a tutti gli essere umani e che nel campo latita, rimane sospesa come in un limbo. E' una situazione che pesa soprattutto sui più piccoli. Ho conosciuto ad esempio un ragazzo, Omar, passato da un campo all'altro: vi è entrato a 17 anni, ora ne ha 22. Io sono testimone di questa continua speranza, vissuta cercando di non lasciarsi andare. L'unico conforto è la religione. Come si dice da queste parti, 'Inshallah', 'Sarà ciò che vuole Dio'".
Insieme agli altri operatori umanitari, con i ragazzi e i bambini - sottolinea Gianluigi - "giochiamo anche a calcio, che qui va per la maggiore, a pallacanestro, a frisbee. Tutte attività accolte sempre positivamente. La mia soddisfazione è vedere questi giovani che si divertono come mi diverto anch'io".
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